The importance of being a dreamer
Into the wild... without expectation
«domenica 21 agosto 2016»


C'è tanta gente infelice che tuttavia non prende l'iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l'animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l'avventura. La gioia di vivere deriva dall'incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell'avere un orizzonte in costante cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso... Non dobbiamo che trovare il coraggio di rivoltarci contro lo stile di vita abituale e buttarci in un'esistenza non convenzionale... 
Christopher McCandless

Ieri è stata una giornata strana, ambigua, confusa. Quando capita, ho bisogno di dare un senso al tempo, trovandolo in altro che non sia la mia vita. Così, ne ho approfittato per guardare "Into the wild", film che avevo in cantiere da parecchio tempo e che, per un motivo e per l'altro, non ho mai avuto la forza di affrontare, per una semplice ragione: è una di quelle pellicole che ti mandano in crisi, ti portano a chiederti se tu stia vivendo o sopravvivendo.
La trama la conoscevo da tempo, per cui la riporto sotto per chi fosse curioso di vederlo:

"Christopher McCandless è un giovane benestante: subito dopo la laurea in scienze sociali all'Università Emory nel 1990, dona i suoi risparmi all'Oxfam e abbandona amici e famiglia per sfuggire ad una società consumista e capitalista nella quale non riesce più a vivere. La sua inquietudine, in parte dovuta al pessimo rapporto con la famiglia e in parte alle letture di autori anticonformisti come Thoreau e London, lo porta a viaggiare per due anni negli Stati Uniti e nel Messico del nord, con lo pseudonimo di Alexander Supertramp."

La tematica del viaggio come "liberazione" mi è molto cara. La fuga di Chris la si può interpretare come si vuole: era un fuggire dalla famiglia o dalla società? Era semplicemente la volontà di alienarsi dal mondo corrente?

Potete vederla come volete. Personalmente, credo sia un insieme di tutto ciò, a cui si può aggiungere un bisogno d'avventura e, forse, l'incapacità psicologica di affrontare i propri demoni personali.
L'ultima reazione di Chris alla vita, che gli sta stretta, è andare, abbandonare ogni legame sociale e vivere principalmente solo, a contatto con la natura. Di tanto in tanto, nel suo lungo viaggio troviamo qualche comparsa, qualcuno con cui si ritrova a passare giorni o settimane.
Ognuno di loro dona al giovane conoscenze, un frammento di esperienza, la propria storia di vita, qualcosa di importante che lo aiuterà a farcela durante il suo percorso. Queste persone si legano molto facilmente al giovane ragazzo.

"Ma ti sbagli se pensi che le gioie della vita vengano soprattutto dai rapporti tra le persone. Dio ha messo la felicità dappertutto e ovunque, in tutto ciò in cui possiamo fare esperienza. Abbiamo solo bisogno di cambiare il modo di guardare le cose."

Al contrario, Alexander appare distaccato, come se vivesse sentimenti umani al minor livello di attivazione: il tempo trascorso in compagnia di costoro è piacevole ma non deve diventare la norma, l'obiettivo ultimo non è l'affiliazione, inizialmente.
L'unica cosa che conta è vivere profondamente, nella verità. Quest'ultima è l'altro grande tema che possiamo trovare: avendo vissuto nella menzogna di una famiglia borghese, dilaniata da violenza intima e nascosta, mascherata dalla triste e finta perfezione esteriore, Chris non tollera più "i corrotti", la cattiveria verso il prossimo, la bugia.
La natura non mente, è verità nuda, non ha nulla a che vedere con le falsità dei rapporti umani, con le costruzioni.
La soluzione, come già detto, è drastica: a Chris non basta spostarsi per l'America come un nomade. L'ultima tappa del viaggio deve essere definitiva, deve dargli la pace totale. Alaska, le terre selvagge.
L'esito del vagabondaggio, tuttavia, è la constatazione che

la felicità è reale solo quando condivisa.

Constatazione che potete interpretare, anche in questo caso, secondo le vostre idee.

Ogni tanto mi chiedo se viaggiare sia solo un modo per non vivere davvero la vita, per fare esperienza senza immergersi totalmente in essa, per non avere legami autentici o se questa sia l'opinione dell'uomo comune. E' preferibile condurre l'esistenza stabile, responsabile e suggerita da tutti? Bisogna seguire le aspettative altrui, alzare i propri standard e conformarsi a "ciò che è meglio"?
Ciò che vedo, intorno a me, è un'universale corsa al successo, lo stesso conformismo del passato che si configura in modo diverso: oggi sembra scontato l'imperativo "non accontentarti, non sprecare tempo", si deve rincorrere un certo stile di vita, bisogna avere un lavoro di tutto rispetto, non perché si desidera davvero farlo ma perché è giusto così. "Sprecare" la propria vita in altri modi, non convenzionali, è sbagliato, non avere grandi pretese ci qualifica come relitti della società.
Le persone si misurano in "esperienze" che le qualifichino: la rispettabilità, prima data dall'avere una casa, una macchina e il brunch della domenica, oggi è il risultato dell'aver "fatto esperienza", principalmente lontano, principalmente per poterlo poi dire agli altri.
Ci si misura così. E' giusto? E' sbagliato? Non ne ho idea.
Io so soltanto che l'unico imperativo che si dovrebbe seguire è la felicità, che sia nelle terre selvagge, nei rapporti umani, nel lavoro.
Ho sempre speso troppo tempo della mia esistenza a "non sprecare tempo", a seguire i consigli di coloro che ritenevo saggi, realizzati, di successo, ad impormi la voglia di raggiungere sogni di perfezione perché "è uno spreco non farlo".
Per come sono giunta a vedere le cose, ad oggi penso che sia un peccato fare violenza su se stessi, imponendosi di seguire una certa via che non è propria.
Il dettame sociale è questo. Ciò che mi sconvolge è che questo magro imperativo si estende a tutti, per cui tale metro di giudizio vale non solo per gli sconosciuti: i nostri amici, i familiari si valutano in base a queste "esperienze". Che si devono fare. 
Non si è più mossi desiderio profondo di fare, si preme su se stessi per sopravvivere alle esigenze del nuovo millennio, per salire un gradino nella scala della "considerazione sociale", per essere riconosciuti dagli altri, più che da se stessi. Così ci si sente migliori. L'esame di coscienza, la propria, è morto, sostituito da sentimenti di colpa, vergogna ed inadeguatezza verso lo standard comune.

Ci si illude che il benessere sia quello anche se si sta male. Ci si nasconde, si fanno propri desideri altrui, che sono obblighi, che non sono propri. Chi devia non sta bene, chi devia è un verme, chi devia è perso. Chi fa ciò che ama è un poveretto.

Il codardo è il nomade o chi resta? Il deviato è un eroe o un fallito?